mercoledì 7 marzo 2018

ANALFABETI DI RITORNO


 Rosa Elisa Giangoia
Dal mondo classico, superando d’un balzo l’arco di oltre due millenni, ci giunge un monito che oggi mi pare di grande attualità: «rem tene, verba sequentur». Sono le parole che l’austero e severo Catone il Censore rivolge al figlio Marco per educarlo alla vita politica nella Roma repubblicana, in quei tempi in cui i genitori si occupavano di educare i figli in base a solidi valori… Certamente molti altri saranno stati gli ammonimenti, ma a noi è giunto solo questo frammento, questo relitto ad indicarci che, prima di parlare, bisogna aver pieno possesso dell’argomento di cui si vuol trattare, poi le parole verranno da sé, di conseguenza, funzionali a quanto si vuol sostenere…
Che questo avvertimento oggi sia completamente dimenticato, o meglio ignorato,  ce ne rendiamo subito conto se assistiamo ai tanti dibattiti che si intrecciano in TV a seguito dei risultati elettorali: dibattitti che non possono che suscitare raccapriccio in chi ha la forma mentis di avere idee chiare su quello che deve dire e di pensare seriamente prima di parlare, basandosi sulla sua pregressa buona formazione linguistica e letteraria.
In questi dibattitti è tutto diverso, tutto va al contrario: gli intervenuti parlano sul nulla e, specie se al di sotto dei quarant’anni, non controllano il linguaggio di cui usano quasi esclusivamente stereotipi in maniera del tutto acritica e ripetitiva. Innanzitutto si servono di frasi e di parole di appoggio il cui valore semantico è caricato oltre ogni limite con perdita della reale funzione espressiva. Uno, ad esempio, è rappresentato dalla parola magica “percorso”. È termine di lontana reminiscenza hegeliana nel senso che, se tutto è storia, tutto è divenire, sviluppo, ma chi lo usa gli dà una sorta di significato conclusivo: il percorso è la soluzione, il cammino è la meta… col risultato che non esprime alcun contenuto, se non uno stato d’animo.
Altro modo corrente è calcare forzatamente sull’asseverativo con la formula oggi dilagante di “assolutamente sì!”. Sembra che non basti dire sì, perché sentito come  troppo debole. Bisogna rafforzarlo come se chi dicesse sì lo dicesse solo per scherzo, per cui, per ottenere credibilità, occorre rafforzarlo, sempre...
Tanti altri esempi si potrebbero portare, dall’aggettivo “particolare”, usato come “sublime”, per non parlare dell’uso insistito, quasi sfacciato, del sostantivo “condivisione”, termine non certo da usare a cuor leggere, in quanto implicherebbe impegno e azione… E ancora quelle parole alterate senza nessuna necessità e soprattutto senza nessuna modifica di significato, come l’abusato “attimino” che nulla aggiunge ad “attimo” che già include l’idea di istantaneità,  e poi  l’aggettivo “squisitissimo”, un vezzo di superlativo, davvero lezioso.
 Fino ad arrivare a espressioni che sfiorano il ridicolo, anche se denotano piuttosto insicurezza e senso della provvisorietà, come “metterci la faccia”: è ovvio, chi parla… ce la mette sempre la faccia, in quanto parla rivolgendosi ai suoi interlocutori e la mimesi facciale dice molto di colui che parla…
Ma la cosa più sconcertante è che a questo lessico si attengono tutti, al di là degli schieramenti politici, per cui viene a decadere l’affermazione di Buffon secondo cui «Le style est l'homme même»: tutti ugualmente banali a dire cose che non hanno fondamento. Il linguaggio, come sempre, è la spia di una realtà sottostante profonda  e, in questo caso, rivela che, sotto le parole, c’è il nulla, per cui il linguaggio si perde in suoni privi di contenuto. Quella che manca è una visione del mondo, un’antropologia a cui la politica si deve ancorare. La politica infatti –Aristotele docet- non è una scienza a sé stante, ma è l’applicazione organizzativa di una concezione filosofica alla vita di una comunità. Mancando questo rapporto non si riescono più a fare affermazioni assolute, ma tutto diventa relativo e provvisorio. Molti sono gli esempi che ce lo confermano: un esame che va male è pur sempre un “mettersi alla prova” o ancor meglio un “mettersi in gioco”, intanto tutto può essere “gioco”, occasionale e ripetibile; il suicidio assistito non è frutto di una decisione determinata e determinante, ma una semplice scelta personale dettata dal benessere fisico. Importanti sono le “esperienze”, sempre all’insegna della provvisorio e del momentaneo. Così, ad esempio, anche per l’omosessualità , il cui divulgarsi diventa interessante pure per gli eterosessuali, potendo rappresentare pur sempre un’esperienza!
Molto ci sarebbe ancora da dire sul linguaggio non verbale, soprattutto quello che coinvolge il corpo e che si adegua a ben precisi dettami della moda. E qui si va dal taglio dei capelli come quello degli indiani uroni per gli uomini, al tingerseli di viola, di rosso carmino, di verde o di giallo, come i pagliacci del circo, per le donne. E non parliamo dei funerali… Al di là del ripetitivo e privo di senso “partecipare al dolore di qualunque sconosciuto come se fosse il proprio”, cosa psicologicamente impossibile  per l’animo umano, tutti, anche quelli religiosi, si trasformano in un non sempre giustificato panegirico del defunto, invece di diventare occasione di riflessione sulla vita, sulla morte e sulla conseguente vita eterna, ovviamente in cielo, quel cielo verso cui ormai è uso far librare tanti palloncini bianchi, quasi potessero raggiungere il caro estinto e portargli il nostro ricordo… O forse ci si illude che sia così?
Riprendiamoci la nostra individualità, proponiamoci di pensare prima di parlare e auguriamoci che lo facciano anche i politici, soprattutto su solide fondamenta, in quanto decidono sulla vita di tutti...