giovedì 23 febbraio 2017

CORSI E RICORSI DI POST-VERITA'

Rosa Elisa Giangoia


Nella sua diffusione ad gentes il Cristianesimo delle origini, rivolgendosi ad un mondo che aveva elaborato un ampio patrimonio culturale, si è confrontato con esso in modo molto accorto, da un lato accogliendo quanto poteva essere funzionale ad un’accettazione del messaggio evangelico, in primis la metafisica, ma anche ponendosi come la risposta sicura e convincente alla diffusa aspettativa di vita eterna con certa ricompensa, aspirazione  molto sentita dalla mentalità del tempo, a cui né i culti misterici, né le varie soteriologie di derivazione filosofica sapevano dare soddisfazione.
C’erano, però, nella visione culturale del tempo altre concezioni, condivise e radicate, che contrastavano con il messaggio evangelico e tra queste di particolare rilievo erano le diseguaglianze tra gli uomini con l’inferiorità della donna e l’accettazione della schiavitù, oltre alla mentalità bellicista. Il nucleo del superamento della condizione di schiavitù nella nuova visione di fraternità tra tutti gli uomini è nella Lettera a Filemone (16) di San Paolo, in cui chiede all’amico di accogliere nuovamente Onesimo, non più come schiavo ma come fratello nel Signore.
Sostenendo l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini, in quanto tutti figli di Dio, il Cristianesimo ha portato da culturalmente elitaria a visione di massa la critica nei confronti della schiavitù per cui quello che era un orientamento filosofico dello stoicismo romano, ben rappresentato da Seneca (ad Luc., V, 47), è diventato un principio condiviso e rivendicato che con la sua attuazione, pur non risolvendo le disparità socio-economiche, ha elevato in dignità gli uomini tutti, come ha conferito un livello di parità alla donna, seppure con residue limitazioni, attestate nelle lettere di San Paolo (1 Cor 11, 7-8; 14, 34-35; Col 3, 18; I Tim 2,12; Tit 2,5; Ef 5,22).
Per quanto riguarda il superiore valore della pace, la questione è stata resa più complicata per la svolta costantiniana  con la divisione del lavoro tra clero e laicato, che trova terreno fertile con il diffondersi progressivo del cristianesimo nell’area germanica e per la successiva contrapposizione con l’Islam occupante la Terra Santa. Infatti nei primi tre secoli dell’Impero al militarismo dominante nella mentalità Romana si contrappone il rifiuto della violenza in generale, specie della violenza istituzionalizzata, che si manifesta attraverso le guerre, da parte dei cristiani che arrivano in diversi casi anche a subire il martirio per la loro obiezione di coscienza al servizio militare e in molti altri si fanno obiettori di fronte a singoli ordini ritenuti ingiusti.
Attraverso un cammino di riflessione in ambito patristico,  che trovò piena teorizzazione nella Demonstratio evangelica di Eusebio, si venne poi affermando la divisione tra preti e monaci, esentati da ogni obbligo militare, e laici, chiamati agli affari e anche, se necessario, alla guerra, attività progressivamente valorizzata dalle classi elevate germaniche anche per ragioni dinastiche. E la non violenza venne recuperata solo dopo molti secoli come valore…
In parallelo va sottolineato il fatto che il Cristianesimo abbia opposto fin dalle origini un deciso rifiuto di quella violenza che impedisce la libera espressione di un proprio convincimento, in quanto la libertà di coscienza non è un privilegio di pochi intellettuali, ma un diritto fondamentale di ogni persona, anche di quelle socialmente e culturalmente più sprovvedute.
Queste sono le linee guida che sono prevalse e  che ancora oggi devono servire d’orientamento nei processi d’inculturazione del Cristianesimo in nuove aree territoriali.
Il Cristianesimo ha una scala di valori che non possono essere messi da parte, per cui il suo inculturarsi non può essere indiscriminato: i discrimina vanno individuati soprattutto per esercitare, quando sia necessario, quell’azione di ribaltamento nei loro confronti, come appunto è avvenuto in certi casi (schiavitù, donne) nei confronti del mondo greco-romano. Di conseguenza, se facciamo nostro il fondamento che tutti gli uomini sono liberi, che tutti sono uguali, che vale di più la vita che la non vita (principi basilari anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) come possiamo inculturare il Cristianesimo in quelle aree dell’India dove persiste la mentalità che non sia reato uccidere gli appartenenti alla casta degli intoccabili senza operare un ribaltamento di valori? O dove permanga l’idea dell’inferiorità della donna e quindi del diritto di qualunque sopruso, abuso e violenza nei suoi confronti? O in Cina dove Confucio insegna che la morale va rispettata principalmente all’interno della famiglia …, in una visione di scarsa soteriologia trascendente? Per non parlare di concezioni molto radicate nella visione della famiglia così lontane dal modello cristiano, come la poligamia nel mondo musulmano o la poliandria in Oceania… E peggio ancora la necessità di sopprimere chi professa una diversa fede, presente in una certa interpretazione dell’Islam, nei confronti della quale anche noi giustifichiamo la guerra…, come è stato per secoli con la colonizzazione.
L’elemento base della differenziazione è la visione del mondo inclusiva di una corretta antropologia. Per capire meglio questo concetto possiamo rivedere quanto diceva Jacques Maritain  in Il contadino della Garonna (ma il concetto era già in Umanesimo integrale e ne I gradi del sapere ), secondo cui, per una corretta teologia occorre una filosofia adeguata, riprendendo il concetto medievale di philosophia ancilla theologiae. La filosofia, infatti, secondo il filosofo francese, è come il missile che mette in orbita la navicella spaziale. Se la filosofia non è corretta, la teologia – navicella - non va in orbita… Finché si è usata una filosofia funzionale, cioè l’aristotelismo, tutto è andato bene, quando invece ci si è serviti di altre filosofie per elaborare una teologia cristiana, le cose sono andate diversamente… Sintomatica al riguardo è l’intervista rilasciata dal venezuelano generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa di recente su L’Espresso. Secondo lui anche le parole di Cristo nel Vangelo a riguardo del libello del ripudio vanno reinterpretate in quanto recepite da uomini… Ma con quale canone ‘ermeneutico’? Forse l’inopportuna idea ottocentesca di matrice tedesca del progresso della Storia? Come interpreteremo, allora, San Paolo che sostiene che  l’impudicizia è idolatria, perché è totalizzare il corpo come valore, il piacere come sufficiente a sé stesso (I Cor 6, 12-20; I Ts 4, 3-7; Gal 5, 19-21; Col 3, 5-6; Ef 5, 3-5), con precisa associazione all’avarizia: perché mai? Perché l’avaro trattiene le cose per la sua sicurezza, per il suo egoismo, e l’impudicizia significa trasformare l’altro in cosa per il proprio piacere. Anche Aristotele nell’Etica Nicomachea dice la stessa cosa che verrà ripresa da San Tommaso nella Summa, I, Secundae. Basta leggere Sade o Edmund White o Proust per trovare conferma del fatto che l’impudicizia è idolatria,in quanto totalizzante. Non assume consistenza proprio con questi argomenti capziosi il relativismo?